Quanti sono i tipi di casa che conoscete? Che avete incontrato o abitato? Quali avete dimenticato, invidiato, impresso nella memoria?
Le più disperate anche, con le pareti ammuffite e una luce fioca che entrava da una finestra feritoia, e che no, non stavano a Matera dove pure ci sono case cunicoli (oggi ristrutturatissime) che in origine dovevano sembrare tane per uomini-talpa, ma proprio qui “dalle nostre bande”.
Case le più disprezzate: piccole, semplici, con una stanza sopra l’altra e un bagnetto così minuscolo da ospitare un asciugamano, non un accappatoio, e che pure erano pulite, essenziali, piene di dignità.
Case altezzose, vacuamente ricche di ninnoli inutili, di mobili che occhieggiavano a stili decadenti e pretenziosi senza averne la stessa efficacia. Case tristi e vuote, col divano senza una grinza e un televisore a pollici erculei piazzato al centro della parete come un totem. Case senza un pelucco di polvere, così immobili che parevano un’istantanea di se stesse o nel peggiore dei casi la foto patinata di un catalogo. Case con le tende tirate, case senza tende, con le tende sempre aperte. Case con tappeti importanti, case con lo zerbino Attenti al micio. Case con un impianto stereo degno di un duomo a cinque navate.
Case colorate e allegre e scompigliate e piene di giochi di bambini. Case pericolanti. Case con la scala a chiocciola o la scala esterna a unire cucina e camera da letto. Case di ringhiera dove se ti affacciavi vedevi il ragù sul gas della vicina di fronte. Case con una vista mirabolante, case con una grata che faceva vedere l’esterno a strisce o losanghe. Case baldanzose, sovrappeso o sovraffollate anche se ci abitavano in due. Case piene di gatti e libri e storie sussurrate dalle pareti. Case stanche, stanchissime ma ancora vivide di ricordi. Case rotonde, senza spigoli né angoli cottura. Case dentro caseggiati, palazzoni in fuga perenne ma senza una meta.
Tra le case che ho visto ce ne sono state di bellissime. La casa di Margherita Hack a Trieste. Lei stava sulla soglia, in ciabatte, la bicicletta accanto all’entrata. Il campanello il suo sorriso. Non so se la sua casa fosse come me l’aspettavo, ma ho sentito che aspettava anche me. Sono passata attraverso un labirinto di torri di libri per raggiungere un salotto o studio o laboratorio con cucina col divano e i pensili e più in là il secchiaio e i fornelli che non erano divani o pensili ma scalette e gambi da graffio per gatti, per tanti gatti.
La casa di Andrea e Marisa Zanzotto – anche lì c’era una presenza felina: il gatto Utti – dove mi sentivo in una casa che era il mondo, e il mondo era sii, e buono, esisti buonamente con tutte le sue inafferrabili (per me) contraddizioni.
La vecchia di Alessandro Battistin a Rolle che era implosa nella spontaneità del colle e era sperimentazione artistica e gioco d’arte e anche parecchio citazione pippicalzelunghese. Era una casa in divenire ora dopo ora.
Ne elenco solo tre accomunate dall’affetto e dalla gioia che provavo/provo per chi le ha vissute. E sono dunque case-ricordo, a questo punto, filtrate dall’obiettivo insolente della memo- ria.
Restano idee di case, quelle dall’archi- tettura sartoriale. Case che sono una seconda pelle. La vostra è così?
Emanuela Da Ros